Differenze tra ernia cervicale, lombare e dorsale

Differenze tra ernia cervicale, lombare e dorsale

Sono stati pubblicati numerosi studi in cui si attesta che l’incidenza per le condizioni dolorose legate al mal di schiena e il dolore al collo è in continua ascesa fra le popolazioni dei Paesi Sviluppati, come l’Italia, e le motivazioni sono ormai ben note:

  • l’attività fisica è poco praticata, nonostante per quasi tutti non manchi la possibilità di poter avere delle scarpe da ginnastica o di iscriversi in una palestra;
  • si pratica una vita sempre più sedentaria, non solo a lavoro ma anche nel tempo libero;
  • il tipo di postura che si utilizza al lavoro: la maggior parte dei lavoratori utilizza il pc, oppure è seduto davanti a una scrivania per almeno 8 ore al giorno, senza pensare a quelle che si passano seduti in metro, autobus o in macchina per arrivare e tornare dal luogo di lavoro;
  • lo stress è diventato parte integrante nella vita di tutti giorni e non sempre si hanno le capacità per gestirlo al meglio. Questo elemento risulta essere uno degli elementi alla base della qualità di vita e di conseguenza della postura e del peso forma.

 

Cenni di anatomia e fisiologia

Le vertebre sono le ossa che costituiscono la colonna vertebrale, sono 33 per l’esattezza e si suddividono dal cranio verso l’osso sacro in questo modo:

  • 7 vertebre cervicali;
  • 12 vertebre dorsali;
  • 5 vertebre lombari;
  • 5 vertebre calcificate sacrali;
  • 4 vertebre calcificate coccigee.

I primi tre segmenti, ossia cervicale, dorsale e lombare sono caratterizzati dall’interposizione di un disco tra le vertebre mentre gli ultimi due segmenti, quello sacrale e quello coccigeo, hanno le vertebre calcificate tra loro per questo vengono spesso considerati come uniche ossa.

 

Qual è la funzione del disco intervertebrale nei rispettivi tratti cervicale, dorsale e lombare?

Il disco intervertebrale ha il compito di stabilizzare i movimenti vertebrali e ammortizzare il carico a cui è sottoposta la colonna.

Questa struttura per il nome di “disco” proprio perché la sua forma circolare assomiglia a un disco, dove si riconoscono due parti differenti:

  • Il Nucleo polposo: è chiamato “nucleo” poiché si trova al centro del disco e ha una consistenza semiliquida;
  • L’Anulus fibroso: è un anello fibroso che si trova nella parte esterna del disco e serve a proteggere il disco e a contenerne il suo nucleo.

Qual è il significato del termine “ernia del disco”?

Il termine “ernia del disco” indica una condizione in cui, a seguito di importanti sollecitazioni il nucleo polposo fuoriesce dall’anulus fibroso.

Occorre distinguere la protrusione discale dall’ernia del disco:

  • Protrusione discale: è una parziale fuoriuscita del disco dalla sua normale sede anatomica;
  • Ernia del disco: è la fuoriuscita del nucleo polposo dall’anello fibroso.

 

È vero che tutte le ernie del disco causano dolore?

La risposta è no, quindi se hai eseguito una risonanza magnetica e hai scoperto di avere delle ernie del disco o delle protrusioni ma non hai dolore, non ti preoccupare, è normale.

Episodi di degenerazione discale sono presenti in moltissime persone adulte, con un’incidenza crescente con l’avanzare dell’età. L’ernia del disco produce dolore quando fuoriesce in prossimità della radice nervosa, e di conseguenza la comprime.

Una compressione di questo tipo può dare origine a vari sintomi tra i quali:

  • Dolore: il dolore può essere locale e nei casi più gravi si può irradiare. Nelle ernie delle vertebre lombari il dolore può raggiungere anche le dita del piede;
  • Formicolio: anche in questo caso il formicolio può irradiarsi lungo il territorio innervato dalla radice nervosa compressa;
  • Parestesia e perdita della forza: sono anche questi dei segni clinici della sofferenza nervosa, che compaiono nelle condizioni avanzate.

 

Quali sono i rimedi per l’ernia cervicale?

Qualora l’ernia cervicale sia considerata responsabile della sintomatologia dolorosa si ricorre a due tipologie di rimedi:

  • il primo è il trattamento conservativo fisioterapico, caratterizzato da un approccio non invasivo costituito di tecniche manuali, esercizi e mezzi fisici;
  • il secondo è l’approccio chirurgico invasivo, che viene attuato quando i tentativi terapeutici conservativi non hanno portato il beneficio sperato e la situazione clinica presente rischia di danneggiare i tessuti circostanti tra cui il nervo.

 

La fisioterapia per l’ernia lombare

La fisioterapia per l’ernia lombare è ad oggi lo strumento migliore per trattare questa condizione. Come già anticipato in precedenza il ciclo fisioterapico avrà l’obbiettivo di migliorare il movimento di tutta la colonna, la cui disfunzione è ritenuta una delle cause principali che hanno sviluppato l’ernia del disco.

Per ridurre il dolore locale e irradiato i fisioterapisti applicano:

  • Posture di scarico, ad esempio ponendo il paziente in decupito laverale in cui si ha la decompressione della radice colpita;
  • Tecniche manuali specifiche: come la tecnica manuale del poumpage e della trazione;
  • Mezzi fisici ad alta tecnologia come: laser ad alta potenza, tecarterapia, ipertermia, ultrasuoni, correnti antalgiche e neurostimolatore interix.

 Una volta diminuita la sintomatologia algica si può passare al recupero di una corretta postura. Questo obbiettivo si raggiunge con esercizi specifici, mobilizzazioni e piccoli accorgimenti che il paziente dovrà adottare giornalmente come ad esempio l’applicazione di un cuscino dietro il dorso mentre lavora o mentre guida in modo da ridurre la rigidità della cifosi dorsale e di conseguenza non affaticare troppo il tratto dorsale nel corso dei movimenti.

Nella parte finale del ciclo terapeutico si tende a lavorare per migliorare la funzionalità del tronco e del collo con un piano di allenamento riabilitativo specifico per la persona che miri a rinforzare il compartimento muscolare deputato alla stabilizzazione.

Per saperne di più leggi l’articolo completo  :

https://www.fisioterapiaitalia.com/blog/ernia-disco/ 

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Radiofrequenza in Fisioestetica

Radiofrequenza in Fisioestetica

Il termine “radiofrequenza” fa riferimento a segnali elettromagnetici le cui frequenze vanno da 30 KHz a 1000 MHz nello spettro elettromagnetico. La caratteristica di questi segnali elettromagnetici è quella di generare calore quando attraversano un tessuto biologico.

La radiofrequenza, in FisioEstetica, utilizza dispositivi all’avanguardia, dotati di manipoli che generano onde elettromagnetiche. Le onde attraversano l’epidermide e raggiungono i tessuti sottostanti emettendo calore (tra i 35°C e i 60°C). Questi strumenti provocano un surriscaldamento controllato che, a contatto con la pelle di viso e corpo, determina uno shock termico positivo, e stimola la produzione di nuovo collagene da parte dei fibroblasti. Ma non finisce qui. L’effetto termico, quando trasmesso a maggiore profondità, comporta la vasodilatazione, favorendo la circolazione sanguigna, riducendo la ritenzione idrica e incrementando l’apporto di ossigeno ai tessuti.

 

Come funziona la radiofrequenza in fisioestetica e in fisioterapia dermatofunzionale

La radiofrequenza nei centri fisioterapici, a differenza di quelli estetici, utilizzano frequenze ottimali e producono onde radio più intense in grado di raggiungere più tessuti. I risultati sono più consistenti e duraturi.

La profondità della penetrazione della radiofrequenza dipende dalla potenza, dalla frequenza, dalle dimensioni dell’elettrodo e dall’impedenza del tessuto (ossia la forza di opposizione del tessuto al passaggio della corrente). Con la radiofrequenza il calore può essere trasferito fino al livello del derma più profondo, raggiungendo anche il grasso sottocutaneo, migliorando di conseguenza il flusso del microcircolo, riducendo la stasi linfatica e stimolando la produzione di elastina e collagene.

Benefici della radiofrequenza in fisioestetica

Che cosa succede nel nostro corpo quando il calore prodotto dalla radiofrequenza raggiunge i vari tessuti?

DERMA : a livello del tessuto del derma è presente il collagene, formato da proteine. Quando il calore causato dalla radiofrequenza attraversa l’epidermide e raggiunge il derma provoca la denaturazione termica delle proteine che formano il collagene. In seguito alla denaturazione di queste proteine proteine viene stimolata l’attività dei fibroblasti, i quali, non solo produrranno nuovo collagene, che andrà a sostituirsi a quello vecchio, ma produrranno anche nuove fibre elastiche e nuovi glicosamminoglicani, tutti elementi fondamentali per il mantenimento di una pelle giovane, soda e tonica.

ADIPE: quando il calore formatosi grazie al trattamento di radiofrequenza raggiunge l’ipoderma, si assiste a un incremento del microcircolo e alla riduzione dell’accumulo di liquidi, determinando un miglioramento della cellulite e un effetto lipolitico.

La radiofrequenza risulta quindi essere uno strumento per la cura degli inestetismi sia del corpo che del viso. È in grado, infatti, di stimolare i naturali processi enzimatici e il microcircolo andando quindi a migliorare condizioni estetiche quali:

  • Cellulite
  • Smagliature
  • Cuscinetti di adipe localizzato
  • Rughe
  • Colorito spento della pelle
  • Linee d’espressione
  • Lassità cutanea
  • Produzione di sebo
  • Macchie della pelle
  • Occhiaie
  • Borse
  • Edemi dovuti a rinoplastica e liposuzioni.

Inoltre, la radiofrequenza si è rivelata utile anche nel trattamento del dolore cronico.

Tutti possono fare trattamenti di radiofrequenza?

La Radiofrequenza, pur essendo un trattamento non invasivo e assolutamente indolore, è sconsigliata a pazienti che hanno:

  • Infezioni locali,
  • Gravidanza e allattamento in atto,
  • Peacemaker,
  • Cardiopatie o aritmie cardiache,
  • Tumore in atto,
  • Malattie auto-immuni,
  • Epilessia,
  • Ferite non completamente rimarginate,
  • Eventuale sensazione di dolore-bruciore,
  • Presenza di deficit di sensibilità,
  • Coagulopatia e tromboflebiti in atto,
  • Neurostimolatori impiantati transcutanei,
  • Epifisi in crescita.

La Radiofrequenza, così come l’Ossigenoterapia e la terapia con le Onde d’Urto, sono trattamenti che stimolano la rigenerazione cellulare. È quindi fondamentale rispettare il turnover cellulare (il rinnovamento cellulare avviene ogni 28 giorni nel nostro organismo) e, dopo la prime sedute, con cadenza trisettimanale, è bene continuare il trattamento con un richiamo a distanza di 15 giorni, al fine di ottenere i massimi risultati.

Ogni seduta può durare dai 20 ai 60 minuti. Un ciclo completo prevede, in media, 10-20 sedute, a seconda del tipo di inestetismo da combattere.

 

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Linfodrenaggio

Linfodrenaggio

Il drenaggio linfatico manuale è una delle tecniche utilizzate in quella che viene definita TERAPIA DECONGESTIVA COMPLESSA ad oggi considerata il trattamento d’eccellenza per i problemi linfovenosi. Della terapia decongestiva complessa fanno parte tecniche quali:

  • Drenaggio linfatico manuale
  • Bendaggio multicomponente
  • Terapia elettromedicale coadiuvante
  • Cura della cute
  • Utilizzo di calze o bracciali elastici
  • Esercizio fisico
  • Controllo del peso corporeo

In particolare il DLM è un massaggio dolce e ritmico eseguito da un fisioterapista opportunamente formato. 
Viene messo in pratica senza utilizzare oli o creme e la seduta ha una durata variabile a seconda delle zone che devono essere trattate. 

Al termine del trattamento la cute non deve apparire arrossata e il paziente non deve percepire nessun tipo di dolore. Prima di iniziare il drenaggio, il terapista eseguirà una opportuna valutazione al fine di comprendere come impostare il trattamento stesso ed individuare eventuali controindicazioni assolute.

 

Quando si usa il linfodrenaggio?

Il drenaggio linfatico manuale viene utilizzato in tutti i casi in cui vi è un rallentamento della circolazione linfatica e venosa, per cause di varia natura. 

Lo scopo del drenaggio linfatico manuale è quello di incoraggiare il fluido linfatico in eccesso ad allontanarsi dall’area gonfia in modo che possa essere riassorbito efficacemente. 
Questo è possibile nel caso in cui i vasi siano integri. Nel caso in cui i vasi siano danneggiati o malfunzionanti, il drenaggio linfatico manuale aiuta a “spostare” i fluidi in altre zone funzionanti per favorirne il riassorbimento.

 

Indicazioni per il drenaggio linfatico manuale

  • Linfedema per il quale si possono riconoscere cause primarie o secondarie. 
    Cause primarie sono rappresentate da anomalie congenite del sistema linfatico siano esse morfologiche o funzionali. Il linfedema è una patologia cronica e progressiva che può essere già presente alla nascita ma spesso può manifestarsi in età più o meno avanzata. Talvolta si può riconoscere una causa scatenante quale una bruciatura cutanea, una puntura d’insetto o altro. Cause secondarie per eccellenza sono gli interventi chirurgici con asportazione linfonodale. Il rischio di sviluppare un linfedema aumenta se viene associata radioterapia. 
  • Insufficienza venosa profonda Sistema linfatico e venosonon possono anatomicamente essere considerati come completamente separati essendo per conformazione simili seppure non uguali. Pertanto in caso di insufficienza venosa con edema degli arti e tendenza alle ulcere venose, il linfodrenaggio è un utile supporto terapeutico. 
  • Lipedema Spesso confuso con un semplice problema estetico.
    Si tratta in realtà di una vera e propria patologia. Il lipedema è una malattia progressiva che si manifesta quasi esclusivamente nel sesso femminile. È caratterizzato da un accumulo atipico di tessuto adiposo inizialmente sui fianchi e sulle cosce. La donna con lipedema tende ad avere la vita stretta e i fianchi molto larghi. 
    Manifesta la tendenza a procurarsi lividi con facilità e percepisce come dei piccoli noduli sottocute.
  • Chirurgia ortopedica, vascolare, estetica ecc.
    Ogni tipo di intervento chirurgico provoca un edema transitorio. 
    Il riassorbimento veloce di tale edema è importante al fine di raggiungere in tempi brevi una guarigione completa e un rapido ripristino delle normali funzioni di quel distretto corporeo. 
  • Gravidanza
    Non vi è nessuna controindicazione al drenaggio linfatico nel caso la donna in gravidanza percepisse le gambe pesanti e gonfie. 
    Dopo un opportuno controllo medico che escluda eventuali complicazioni generali, il linfodrenaggio può rappresentare un ottimo strumento per gestire i mesi della gravidanza in modo completamente naturale.

 

 Quali sono le principali tecniche di linfodrenaggio?

Le prime tecniche di drenaggio linfatico manuale sono state sperimentate dal danese Dr Vodder e dalla moglie negli anni ’30 osservando pazienti con sinusite cronica e altri disordini immunitari.

Il Dr Vodder mise a punto un insieme di tecniche basate su movimenti di pompaggio ritmici eseguiti con una o due mani in direzione prossimo distale. Partendo dal lavoro del Dr Vodder, il Dr Leduc sviluppò il suo metodo che si differenzia per un numero inferiore di manovre eseguite con una diversa manualità.

Entrambi i metodi riconoscevano fosse necessaria una pressione nell’esecuzione delle manovre che non superasse i 30-40 mm di mercurio. 
Si riteneva infatti che pressioni maggiori potessero far chiudere i vasi linfatici dai quali la linfa non sarebbe potuta così defluire.

 

Come si svolge una seduta di drenaggio linfatico manuale?

Se il terapista non vi conosce, vi chiederà alcune informazioni di base per valutare se possibile inserirvi da subito in trattamento oppure richiedere prima una consulenza medica.

Se potrete essere immediatamente sottoposti a DRENAGGIO LINFATICO MANUALE, vi verranno fatte delle fotografie e prese delle misure centimetriche e volumetriche.

Questo sistema permetterà una valutazione oggettiva dei cambiamenti dell’edema stesso.

In caso di linfedema importante può succedere che il terapista scelga di applicare un bendaggio compressivo già in prima seduta e drenare le zone scoperte dal bendaggio.

Nel caso in cui il bendaggio non fosse necessario si provvederà a drenare le zone in cui sono presenti la maggior parte dei linfonodi e si utilizzeranno manovre manuali per spostare i liquidi che si sono accumulati verso le maggiori zone di scarico. La direzione sarà sempre da prossimale a distale.

Per ricevere un trattamento di DRENAGGIO LINFATICO MANUALE sarà necessario scoprire le zone da trattare.

Il massaggio verrà eseguito su di un lettino fisioterapico in posizione supina, prona e sul fianco. 
La frequenza delle sedute varia da caso a caso e non può essere prevista se non dopo valutazione del singolo caso. 
Al termine del trattamento, verranno insegnati esercizi di respirazione profonda per sfruttarne i benefici a livello del sistema linfatico e circolatorio.

Come previsto dalla TERAPIA DECONGESTIVA COMPLESSA di cui il linfodrenaggio è parte integrante potrebbe essere necessario per mantenere i risultati raggiunti, l’utilizzo di calze o bracciali contenitivi soprattutto in caso di problematiche croniche quali il linfedema, il lipedema e l’insufficienza venosa.

CONTROINDICAZIONI 
Controindicazioni assolute sono rappresentate da:

  • tumori maligni non trattati
  • infiammazioni acute
  • stati febbrili
  • trombosi venose in atto
  • edemi da insufficienza cardiaca non compensata farmacologicamente.

 

 Per saperne di più leggi l’articolo completo  :

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Allenamento, Dolore Cronico e Fisioterapia

Allenamento, Dolore Cronico e Fisioterapia

Quando si parla di dosaggio dell’allenamento purtroppo si ha la tendenza a “prescrivere” quasi sempre le classiche 3 serie da 10, 12 o 15 ripetizioni.

Un principio che andrebbe, dopo tantissimi decenni, modificato in funziona di una metodologia su misura in funzione dei bisogni specifici delle persone.

Storia e princìpi del 3 x 10

Chi si è allenato in palestra sa che variare ripetizioni e serie serve all’organismo – in modo particolare ai muscoli – per non abituarsi ai carichi e avere migliori risultati sia per quanto riguarda l’ipertrofia che la definizione.

In Fisioterapia, al contrario, non si è mai data troppa importanza al “modo” di fare gli esercizi, innamorandosi dello standard 3 x 10. In pratica si fanno sempre dieci ripetizioni, ci si riposa un tempo variabile (di solito almeno un minuto), per poi ripetere l’esercizio per un totale, appunto, di tre serie.

Ad aver creato tale protocollo fu Thomas DeLorme che curava soldati feriti durante la Seconda Guerra Mondiale. Egli notò come questi uomini, a fronte di ferite anche gravi, traessero il maggiore beneficio seguendo il 3 x 10.

Il principio del metodo era banale: aumentava la forza e velocizzava il recupero attenuando il dolore (Fonte: Todd, Shurley e Todd, 2012).

 i fisioterapisti dovrebbero conoscere, oltre al loro mestiere, anche le basi dell’esercizio fisico per poterlo applicare nel modo opportuno ai loro pazienti. Esistono, in linea di massima, 4 fondamentali principi:

  • Sovraccarico, è utile per migliorare la funzionalità fisiologica e produrre una più rapida risposta dell’organismo dovuta all’allenamento.
  • Specificità, sia degli esercizi da proporre che delle differenti attività in funzione della singola persona per generare “specifici” effetti.
  • Differenze individuali, ogni persona risponde in maniera differente alle medesime sollecitazioni in funzione di moltissimi fattori personali, fisici e anche psicologici.
  • Reversibilità, se una persona lascia un programma di allenamento il suo “ritorno al passato” sarà molto rapido. Capire questo meccanismo per poterlo affrontare e diminuirne gli effetti negativi è importantissimo.

 

Correlazione tra dolore ed esercizio

Gli studi dimostrano come alcuni medici possano instillare nei pazienti, ovviamente in modo non intenzionale, la convinzione che il dolore sia correlato direttamente al danno incoraggiandoli a smettere di fare esercizio.

Capire come fare esercizio fisico, le sue implicazioni fisiologiche o anche il riacutizzarsi del dolore stesso, sono argomenti complessi poiché il dolore è un fenomeno multidimensionale.

I medici e gli specialisti devono capire che provare dolore, non significa per forza:

  • Nuocere a una persona.
  • Non significa che è in pericolo.
  • O che possa in qualche modo creare lesioni o danni.

 

 Cosa fare per aiutare una persona che svolge esercizi dolorosi…

Ecco un breve decalogo – per fisioterapisti – al fine di rendere l’esperienza il più gradevole possibile:

  1. L’esercizio fisico deve essere divertente.
  2. Fai fare esercizi aerobici, ma anche di controllo motorio.
  3. Monitora costantemente eventuali sintomi o fastidi, mantieni tutto sotto controllo.
  4. Tra le varie serie è opportuno fare pause abbastanza lunghe (di media tra i 2 e i 5 minuti).
  5. Scegli specifici esercizi in funzione del paziente e adattali alle sue esigenze personali.
  6. Utilizza un approccio organizzato e che segua una linea del tempo precisa.
  7. Parla con il paziente e discuti con lui il tipo di protocollo d’allenamento che hai in mente.
  8. Accetta che il dolore, in minima parte, sia destinato ad aumentare durante lo svolgimento delle sessioni d’allenamento.
  9. Attenzione, rispetto ed empatia.

 

… e cosa NON fare

  1. Iniziare da subito con carichi troppo pesanti che potrebbero provocare molto dolore.
  2. Focalizzarsi esclusivamente sul 3 x 10.
  3. Allenare solo le zone doloranti a scapito di quelle che invece “sembrano” non esserlo.
  4. Puntare al non far sentire il dolore – perché il dolore non è un indicatore delle condizioni dei tessuti.
  5. Essere troppo duri e “dittatoriali” con il paziente, quando invece sono necessari dialogo e collaborazione.

Come si evince da questa sommaria lista si dovrebbe ascoltare il paziente e, allo stesso tempo, conoscere le varie tecniche per evitare che questi – per paura del dolore – lo rifugga andando a incidere negativamente sulla terapia.

Il dolore è un fenomeno fortemente soggettivo, tanto che un 5/10 per una persona, dovuto da un dato movimento, può essere invece percepito come un 2/10 o anche un 8/10 da altri.

 

Scegliere il ritmo, decidere l’obiettivo, lavorare per livelli (o quote)

Uno dei metodi maggiormente diffusi per “allenarsi” anche quando c’è dolore (e contro di esso) è di lavorare per livelli prestabiliti (o quote).

Il meccanismo è abbastanza semplice: si prestabilisce un quantitativo di attività che deve essere svolta indipendentemente dall’intensità del dolore che la persona sente.

A questo punto si aumenta il carico di lavoro in modo graduale, permettendo al paziente di “abituarsi” al dolore.

Siamo di fronte a una metodologia combinata con un approccio sistemico in cui, una volta raggiunta la quota di lavoro, il soggetto viene ricompensato (Fordyce, 2015).

Sebbene il lavoro per quote si sia dimostrato utile (esso mira ad aumentare gradualmente i carichi di lavoro), mostra però evidenti limiti, per questo si sta provando a combinarlo con metodi più dinamici, dosati sul singolo individuo.

 

Giusto “dosaggio” nella gestione del dolore cronico

Per dosaggio si intende la “frequenza”, ossia il numero di volte in cui si allena nell’arco di una singola settimana. Per intensità, invece, si intende il modo in cui ci si allena (quanto duramente). 

È una metodologia che serve per costruire la tolleranza “su misura” al dolore. La versatilità dei “programmi contingenti” fornisce ai pazienti la possibilità di vedere aumentare i carichi di lavoro attraverso l’utilizzo di scale di valutazione soggettive e personali, ottenendo anche un miglioramento dal punto di vista fisico.

Il volume dell’allenamento è ottenuto attraverso una serie di semplici calcoli su specifici parametri immessi dal fisioterapista in funzione della persona, dei bisogni, dello stato di forma del paziente.

Perché utilizzare un “programma contingente”

Avere un approccio contingente permette al fisioterapista di modulare i vari parametri della scheda di allenamento per avere il medesimo Volume Totale. Di conseguenza sarà possibile diminuire il Carico (che indica il peso utilizzato), magari a favore delle Ripetizioni (Reps).

Come si vede il Volume Totale (420, 1200) per le due schede è identico, a variare sono i parametri che il fisioterapista può modulare in base alle esigenze/paure del paziente. Utilizzare un approccio contingente permette quindi di passare da un ragionamento:

  • Univariato (l’unico parametro a cambiare è il peso) a uno
  • Multivariato (modificando i parametri di dosaggio per aumentare il volume complessivo)

Con questo approccio è possibile stimolare il fisico del paziente anche a fronte delle sue necessità (e timori causati dal dolore), cambiando i singoli parametri al fine di raggiungere l’obiettivo prestabilito. È chiaro come il volume di carico sia il medesimo nei vari scenari nonostante la riduzione del tempo continuativo di allenamento ma con l’aumento della frequenza.

Al paziente verrà così concesso di riposarsi in base ad accordi preliminari e con il raggiungimento dei valori prestabiliti. Si crea così anche un meccanismo premiante: conseguimento dell’obiettivo → riposo.

Siamo di fronte a una metodologia che “naviga a vista”, in cui è essenziale l’apprendimento e l’attenzione massima da parte del fisioterapista e della persona che allena, per fornire i giusti feedback su eventuali aumenti della tolleranza fisiologica. In generale si dovrebbe utilizzare una scala soggettiva che aiuti per capire il dolore e dargli il giusto “peso” non solo durante l’allenamento.

Conclusioni

È importante lavorare sul dosaggio (o quota) con una grossa enfasi alla contingenza temporale così come alla tolleranza fisiologica.

Un buon fisioterapista non solo conosce gli strumenti per aiutare il paziente, ma sa anche come stimolarlo dal punto di vista umano e dargli fiducia nei propri mezzi rompendo l’idea che il movimento porti dolore: o ancora meglio che il dolore provocato dall’esercizio fisico, sia un indicatore di danni ai tessuti. 

 

 

 

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Movimento ed Allenamento

Movimento ed Allenamento

Il movimento è vita!

Questa affermazione può sembrare una generalizzazione ma non è così.

Tutto il nostro corpo  è stato progettato per muoversi e la forma del nostro corpo è plasmata dai movimenti che facciamo seguendo la regola che: “la forma è il risultato della funzione”

La forma è il risultato della funzione

Spieghiamo questo concetto partendo dall’inizio.

Quando il nascituro si trova nel grembo materno la posizione che assume è quella fetale. La colonna vertebrale presenta una unica curvatura con la parte concava rivolta in avanti (cifosi) come fosse una lettera “C”. Dopo la nascita il neonato non controlla in un primo momento la posizione del capo e, quando questo avviene, si forma a livello della colonna cervicale una nuova curva avente la concavità opposta (lordosi) a quella già presente.

Successivamente il bimbo acquisirà la posizione eretta per camminare e questo determinerà la formazione di una nuova curva a livello lombare (lordosi) che è il risultato della tensione di alcuni muscoli che uniscono l’anca alla colonna vertebrale.

La nostra colonna vertebrale presenta pertanto tre curvature: La cifosi dorsale, che è la prima a strutturarsi, la lordosi cervicale e quella lombare che sono frutto della funzione che la colonna deve assolvere.

Com’è organizzato il movimento umano?

Esistono delle aree della corteccia cerebrale (la parte più esterna del cervello dal caratteristico colore grigio) che sono responsabili del movimento.

Inizialmente pensavamo che in queste aree cerebrali ci fosse scritto il singolo muscolo ma ciò che abbiamo capito successivamente che nelle aree cerebrali ci sono scritte le funzioni.

Come esempio possiamo osservare due movimenti simili che producono l’allungamento del braccio ovvero l’afferrare un oggetto o indicare una direzione.

Questi movimenti sono prodotti da attivazioni del cervello differenti.Questo perché nel nostro cervello ci sono scritte le funzioni piuttosto che i singoli movimenti e ciò ha un impatto significativo sulla scelta del corretto esercizio per la cura di una specifica problematica.

Il ruolo del fisioterapista

Il fisioterapista, infatti, nella scelta dell’esercizio terapeutico più idoneo da somministrare ad un paziente deve tenere conto di questo principio fornendo una serie di esercizi che possano riallenare le diverse funzioni del paziente. 

La specificità dell’esercizio è un elemento estremamente importante sia per chi vuole allenarsi in maniera adeguata e, lo è ancor di più, quando si parla di recuperare una funzione momentaneamente persa.

Questi concetti volgono ovviamente per tutto il movimento umano. Il fisioterapista, da questo punto di vista deve:

  • In prima analisi comprendere quale sia la funzione che è più importante recuperare e deve dare degli esercizi di movimento o allenamento terapeutici specifici per quella funzione piuttosto che limitarsi a rinforzare dei muscoli.

Per questa ragione, seguire un programma di esercizi di movimento o allenamento senza che ci sia stata una valutazione funzionale da parte del fisioterapista può essere inutile in quanto non è detto che si lavori sulla funzione ridotta dal processo patologico.

Importante è considerare anche le possibili integrazioni che il movimento e l’allenamento oggi stanno avendo con varie tecnologie come alcuni sistemi per la tecarterapia che stanno implementando interfacce dinamiche per l’utilizzo in allenamento.

L’era del mero rinforzo muscolare è terminata ed ha lasciato il posto all’esercizio funzionale.

Un esercizio che rende il recupero più specifico e quindi, che determina risultati più veloci.

 

 

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https://www.fisioterapiaitalia.com/terapie/movimento-e-allenamento/ 

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