Rigidità cervicale e Mal di testa

Rigidità cervicale e Mal di testa

La rigidità cervicale è un disturbo molto diffuso e comune. Generalmente è caratterizzata da dolenzia diffusa sulle spalle, dolore e pesantezza tra le scapole e lungo il collo fino alla base della nuca. I movimenti del collo sono limitati e dolenti, specialmente ruotare la testa da un lato come quando si vuole guardare dietro mentre si fa retromarcia in auto. La rigidità cervicale spesso è associata a mal di testa, cefalea tensiva o emicrania.

Può essere anche uno dei sintomi che accompagnano episodi di vertigine o pseudo-vertigine, con o senza cefalea, perché i disordini cervicali possono essere causa di capogiri o “vertigini cervicali”.

Cosa fare in caso di rigidità cervicale

La rigidità cervicale è una condizione clinica di facile gestione: spesso ha un’origine muscolare e può essere trattata velocemente e con poche sedute.

La rigidità cervicale è una delle caratteristiche fondamentali della “cervicalgia”. Quando la mobilità cervicale viene limitata e la rigidità si manifesta, che sia lieve o grave, che sia insorta dopo aver dormito in una certa posizione o dopo uno sforzo, le prime cose da fare sono semplici e uguali per tutti:

Consapevolezza: rendersi consapevoli che qualcosa è successo, è normale che il collo possa irrigidirsi e che c’è bisogno di almeno 24 ore per poter ipotizzare una possibile causa e decidere cosa fare.

Tranquillità: è importante restare tranquilli, “ascoltare” il corpo ed evitare i movimenti e posizioni che provocano più dolore e aumentano la rigidità. Evitare “pensieri catastrofici” che aumentano solo la percezione del dolore. Questo vale per le prime 24-48 ore.                                                                         

Rivolgersi ad esperti: prima di prendere farmaci che non servono e hanno effetti collaterali, e senza andare dal medico, è sufficiente chiamare un fisioterapista specializzato e chiedere un consulto.                    

Movimento: è fondamentale continuare a fare le cose normalmente con i dovuti accorgimenti. Da evitare assolutamente il riposo passivo, ad esempio stare a letto o prendere farmaci subito, mettere un collare o fare radiografie o risonanze. Tutto ciò non serve e peggiora la situazione, indebolendo mente e corpo.                                                                       

Realismo: non esistono cuscini magici, creme da spalmare o farmaci miracolosi per risolvere tutto e subito. Farmaci: gli antinfiammatori servono a ridurre i processi di infiammazione ma l’infiammazione è un evento naturale e necessario. I primi 4-5 giorni non dovrebbero essere assunti. Se dopo una settimana la rigidità, il gonfiore o i dolori permangono allo stesso livello o peggiorano ha senso prenderne ma solo su indicazione medica.                                                                               

Stretching e movimenti dolci: non appena possibile è bene iniziare a fare pochi ma continui esercizi di stretching dinamico (cioè movimenti ripetuti) e tonificazione del collo, anche generici.  Muoversi è sempre benefico e aiuta a migliorare la cosiddetta “stretch tolerance” cioè “l’estensibilità” dei tessuti. Questo si traduce in una maggiore capacità di movimento e benessere.                                                                       

Esercizi aerobici a basso impatto: oltre ai semplici esercizi di stretching o movimento generale, qualsiasi forma di esercizio aerobico a basso impatto è consigliato da subito: camminare, bicicletta, step machine o ellittica, meglio all’aria aperta per una migliore ossigenazione ed “impatto emotivo”.                          

Trattamento manuale: il fisioterapista esperto saprà usare e dosare le migliori tecniche di manipolazione tissutale. Si eseguono con le mani o con strumenti particolari, e consistono in pressioni sostenute o associate a movimenti. Vengono interessati diversi tessuti contemporaneamente: la cute, i vasi sanguigni, i nervi stessi, la fascia, i muscoli, i tendini, le articolazioni, i legamenti e le inserzioni di tali tessuti sulle ossa. Generalmente sono tecniche lente e di piccola ampiezza, con intensità e profondità graduali, per tempi adeguati alla condizione ed alla tollerabilità del paziente.

 

Ne indichiamo quelle con provata efficacia:

tecniche miotensive di rilassamento e inibizione che sono tecniche di mobilizzazione attivo-assistite che prevedono stimolazioni specifiche e stretching dinamico;

tecniche di manipolazione spinale: sono tecniche di medicina manuale ortopedica e osteopatica, veloci, di piccola ampiezza, che possono produrre rumori particolari (i famosi scrocchi o “crack”) usate solo da mani esperte, molto sicure ed efficaci;

tecniche di educazione neuroscientifica e coaching per apprendere la neurofisiologia del dolore, rimodulare convinzioni negative, stimolare una partecipazione attiva del paziente nel processo di guarigione;

tecniche di ricondizionamento neuro-muscolare: esercizi specifici, semplici, per stimolare il sistema nervoso con effetti neurofisiologici locali e globali e favorire il recupero della resistenza e della mobilità tissutale.

 

 

Per saperne di più leggi l’articolo completo  :

https://www.clinicadelmalditesta.it/rigidita-cervicale-e-trattamento/

 

 

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Radiofrequenza in Fisioestetica

Radiofrequenza in Fisioestetica

Il termine “radiofrequenza” fa riferimento a segnali elettromagnetici le cui frequenze vanno da 30 KHz a 1000 MHz nello spettro elettromagnetico. La caratteristica di questi segnali elettromagnetici è quella di generare calore quando attraversano un tessuto biologico.

La radiofrequenza, in FisioEstetica, utilizza dispositivi all’avanguardia, dotati di manipoli che generano onde elettromagnetiche. Le onde attraversano l’epidermide e raggiungono i tessuti sottostanti emettendo calore (tra i 35°C e i 60°C). Questi strumenti provocano un surriscaldamento controllato che, a contatto con la pelle di viso e corpo, determina uno shock termico positivo, e stimola la produzione di nuovo collagene da parte dei fibroblasti. Ma non finisce qui. L’effetto termico, quando trasmesso a maggiore profondità, comporta la vasodilatazione, favorendo la circolazione sanguigna, riducendo la ritenzione idrica e incrementando l’apporto di ossigeno ai tessuti.

 

Come funziona la radiofrequenza in fisioestetica e in fisioterapia dermatofunzionale

La radiofrequenza nei centri fisioterapici, a differenza di quelli estetici, utilizzano frequenze ottimali e producono onde radio più intense in grado di raggiungere più tessuti. I risultati sono più consistenti e duraturi.

La profondità della penetrazione della radiofrequenza dipende dalla potenza, dalla frequenza, dalle dimensioni dell’elettrodo e dall’impedenza del tessuto (ossia la forza di opposizione del tessuto al passaggio della corrente). Con la radiofrequenza il calore può essere trasferito fino al livello del derma più profondo, raggiungendo anche il grasso sottocutaneo, migliorando di conseguenza il flusso del microcircolo, riducendo la stasi linfatica e stimolando la produzione di elastina e collagene.

Benefici della radiofrequenza in fisioestetica

Che cosa succede nel nostro corpo quando il calore prodotto dalla radiofrequenza raggiunge i vari tessuti?

DERMA : a livello del tessuto del derma è presente il collagene, formato da proteine. Quando il calore causato dalla radiofrequenza attraversa l’epidermide e raggiunge il derma provoca la denaturazione termica delle proteine che formano il collagene. In seguito alla denaturazione di queste proteine proteine viene stimolata l’attività dei fibroblasti, i quali, non solo produrranno nuovo collagene, che andrà a sostituirsi a quello vecchio, ma produrranno anche nuove fibre elastiche e nuovi glicosamminoglicani, tutti elementi fondamentali per il mantenimento di una pelle giovane, soda e tonica.

ADIPE: quando il calore formatosi grazie al trattamento di radiofrequenza raggiunge l’ipoderma, si assiste a un incremento del microcircolo e alla riduzione dell’accumulo di liquidi, determinando un miglioramento della cellulite e un effetto lipolitico.

La radiofrequenza risulta quindi essere uno strumento per la cura degli inestetismi sia del corpo che del viso. È in grado, infatti, di stimolare i naturali processi enzimatici e il microcircolo andando quindi a migliorare condizioni estetiche quali:

  • Cellulite
  • Smagliature
  • Cuscinetti di adipe localizzato
  • Rughe
  • Colorito spento della pelle
  • Linee d’espressione
  • Lassità cutanea
  • Produzione di sebo
  • Macchie della pelle
  • Occhiaie
  • Borse
  • Edemi dovuti a rinoplastica e liposuzioni.

Inoltre, la radiofrequenza si è rivelata utile anche nel trattamento del dolore cronico.

Tutti possono fare trattamenti di radiofrequenza?

La Radiofrequenza, pur essendo un trattamento non invasivo e assolutamente indolore, è sconsigliata a pazienti che hanno:

  • Infezioni locali,
  • Gravidanza e allattamento in atto,
  • Peacemaker,
  • Cardiopatie o aritmie cardiache,
  • Tumore in atto,
  • Malattie auto-immuni,
  • Epilessia,
  • Ferite non completamente rimarginate,
  • Eventuale sensazione di dolore-bruciore,
  • Presenza di deficit di sensibilità,
  • Coagulopatia e tromboflebiti in atto,
  • Neurostimolatori impiantati transcutanei,
  • Epifisi in crescita.

La Radiofrequenza, così come l’Ossigenoterapia e la terapia con le Onde d’Urto, sono trattamenti che stimolano la rigenerazione cellulare. È quindi fondamentale rispettare il turnover cellulare (il rinnovamento cellulare avviene ogni 28 giorni nel nostro organismo) e, dopo la prime sedute, con cadenza trisettimanale, è bene continuare il trattamento con un richiamo a distanza di 15 giorni, al fine di ottenere i massimi risultati.

Ogni seduta può durare dai 20 ai 60 minuti. Un ciclo completo prevede, in media, 10-20 sedute, a seconda del tipo di inestetismo da combattere.

 

Per saperne di più leggi l’articolo completo  :

https://www.fisioterapiaitalia.com/blog/radiofrequenza-fisioestetica/ 

 

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Allenamento, Dolore Cronico e Fisioterapia

Allenamento, Dolore Cronico e Fisioterapia

Quando si parla di dosaggio dell’allenamento purtroppo si ha la tendenza a “prescrivere” quasi sempre le classiche 3 serie da 10, 12 o 15 ripetizioni.

Un principio che andrebbe, dopo tantissimi decenni, modificato in funziona di una metodologia su misura in funzione dei bisogni specifici delle persone.

Storia e princìpi del 3 x 10

Chi si è allenato in palestra sa che variare ripetizioni e serie serve all’organismo – in modo particolare ai muscoli – per non abituarsi ai carichi e avere migliori risultati sia per quanto riguarda l’ipertrofia che la definizione.

In Fisioterapia, al contrario, non si è mai data troppa importanza al “modo” di fare gli esercizi, innamorandosi dello standard 3 x 10. In pratica si fanno sempre dieci ripetizioni, ci si riposa un tempo variabile (di solito almeno un minuto), per poi ripetere l’esercizio per un totale, appunto, di tre serie.

Ad aver creato tale protocollo fu Thomas DeLorme che curava soldati feriti durante la Seconda Guerra Mondiale. Egli notò come questi uomini, a fronte di ferite anche gravi, traessero il maggiore beneficio seguendo il 3 x 10.

Il principio del metodo era banale: aumentava la forza e velocizzava il recupero attenuando il dolore (Fonte: Todd, Shurley e Todd, 2012).

 i fisioterapisti dovrebbero conoscere, oltre al loro mestiere, anche le basi dell’esercizio fisico per poterlo applicare nel modo opportuno ai loro pazienti. Esistono, in linea di massima, 4 fondamentali principi:

  • Sovraccarico, è utile per migliorare la funzionalità fisiologica e produrre una più rapida risposta dell’organismo dovuta all’allenamento.
  • Specificità, sia degli esercizi da proporre che delle differenti attività in funzione della singola persona per generare “specifici” effetti.
  • Differenze individuali, ogni persona risponde in maniera differente alle medesime sollecitazioni in funzione di moltissimi fattori personali, fisici e anche psicologici.
  • Reversibilità, se una persona lascia un programma di allenamento il suo “ritorno al passato” sarà molto rapido. Capire questo meccanismo per poterlo affrontare e diminuirne gli effetti negativi è importantissimo.

 

Correlazione tra dolore ed esercizio

Gli studi dimostrano come alcuni medici possano instillare nei pazienti, ovviamente in modo non intenzionale, la convinzione che il dolore sia correlato direttamente al danno incoraggiandoli a smettere di fare esercizio.

Capire come fare esercizio fisico, le sue implicazioni fisiologiche o anche il riacutizzarsi del dolore stesso, sono argomenti complessi poiché il dolore è un fenomeno multidimensionale.

I medici e gli specialisti devono capire che provare dolore, non significa per forza:

  • Nuocere a una persona.
  • Non significa che è in pericolo.
  • O che possa in qualche modo creare lesioni o danni.

 

 Cosa fare per aiutare una persona che svolge esercizi dolorosi…

Ecco un breve decalogo – per fisioterapisti – al fine di rendere l’esperienza il più gradevole possibile:

  1. L’esercizio fisico deve essere divertente.
  2. Fai fare esercizi aerobici, ma anche di controllo motorio.
  3. Monitora costantemente eventuali sintomi o fastidi, mantieni tutto sotto controllo.
  4. Tra le varie serie è opportuno fare pause abbastanza lunghe (di media tra i 2 e i 5 minuti).
  5. Scegli specifici esercizi in funzione del paziente e adattali alle sue esigenze personali.
  6. Utilizza un approccio organizzato e che segua una linea del tempo precisa.
  7. Parla con il paziente e discuti con lui il tipo di protocollo d’allenamento che hai in mente.
  8. Accetta che il dolore, in minima parte, sia destinato ad aumentare durante lo svolgimento delle sessioni d’allenamento.
  9. Attenzione, rispetto ed empatia.

 

… e cosa NON fare

  1. Iniziare da subito con carichi troppo pesanti che potrebbero provocare molto dolore.
  2. Focalizzarsi esclusivamente sul 3 x 10.
  3. Allenare solo le zone doloranti a scapito di quelle che invece “sembrano” non esserlo.
  4. Puntare al non far sentire il dolore – perché il dolore non è un indicatore delle condizioni dei tessuti.
  5. Essere troppo duri e “dittatoriali” con il paziente, quando invece sono necessari dialogo e collaborazione.

Come si evince da questa sommaria lista si dovrebbe ascoltare il paziente e, allo stesso tempo, conoscere le varie tecniche per evitare che questi – per paura del dolore – lo rifugga andando a incidere negativamente sulla terapia.

Il dolore è un fenomeno fortemente soggettivo, tanto che un 5/10 per una persona, dovuto da un dato movimento, può essere invece percepito come un 2/10 o anche un 8/10 da altri.

 

Scegliere il ritmo, decidere l’obiettivo, lavorare per livelli (o quote)

Uno dei metodi maggiormente diffusi per “allenarsi” anche quando c’è dolore (e contro di esso) è di lavorare per livelli prestabiliti (o quote).

Il meccanismo è abbastanza semplice: si prestabilisce un quantitativo di attività che deve essere svolta indipendentemente dall’intensità del dolore che la persona sente.

A questo punto si aumenta il carico di lavoro in modo graduale, permettendo al paziente di “abituarsi” al dolore.

Siamo di fronte a una metodologia combinata con un approccio sistemico in cui, una volta raggiunta la quota di lavoro, il soggetto viene ricompensato (Fordyce, 2015).

Sebbene il lavoro per quote si sia dimostrato utile (esso mira ad aumentare gradualmente i carichi di lavoro), mostra però evidenti limiti, per questo si sta provando a combinarlo con metodi più dinamici, dosati sul singolo individuo.

 

Giusto “dosaggio” nella gestione del dolore cronico

Per dosaggio si intende la “frequenza”, ossia il numero di volte in cui si allena nell’arco di una singola settimana. Per intensità, invece, si intende il modo in cui ci si allena (quanto duramente). 

È una metodologia che serve per costruire la tolleranza “su misura” al dolore. La versatilità dei “programmi contingenti” fornisce ai pazienti la possibilità di vedere aumentare i carichi di lavoro attraverso l’utilizzo di scale di valutazione soggettive e personali, ottenendo anche un miglioramento dal punto di vista fisico.

Il volume dell’allenamento è ottenuto attraverso una serie di semplici calcoli su specifici parametri immessi dal fisioterapista in funzione della persona, dei bisogni, dello stato di forma del paziente.

Perché utilizzare un “programma contingente”

Avere un approccio contingente permette al fisioterapista di modulare i vari parametri della scheda di allenamento per avere il medesimo Volume Totale. Di conseguenza sarà possibile diminuire il Carico (che indica il peso utilizzato), magari a favore delle Ripetizioni (Reps).

Come si vede il Volume Totale (420, 1200) per le due schede è identico, a variare sono i parametri che il fisioterapista può modulare in base alle esigenze/paure del paziente. Utilizzare un approccio contingente permette quindi di passare da un ragionamento:

  • Univariato (l’unico parametro a cambiare è il peso) a uno
  • Multivariato (modificando i parametri di dosaggio per aumentare il volume complessivo)

Con questo approccio è possibile stimolare il fisico del paziente anche a fronte delle sue necessità (e timori causati dal dolore), cambiando i singoli parametri al fine di raggiungere l’obiettivo prestabilito. È chiaro come il volume di carico sia il medesimo nei vari scenari nonostante la riduzione del tempo continuativo di allenamento ma con l’aumento della frequenza.

Al paziente verrà così concesso di riposarsi in base ad accordi preliminari e con il raggiungimento dei valori prestabiliti. Si crea così anche un meccanismo premiante: conseguimento dell’obiettivo → riposo.

Siamo di fronte a una metodologia che “naviga a vista”, in cui è essenziale l’apprendimento e l’attenzione massima da parte del fisioterapista e della persona che allena, per fornire i giusti feedback su eventuali aumenti della tolleranza fisiologica. In generale si dovrebbe utilizzare una scala soggettiva che aiuti per capire il dolore e dargli il giusto “peso” non solo durante l’allenamento.

Conclusioni

È importante lavorare sul dosaggio (o quota) con una grossa enfasi alla contingenza temporale così come alla tolleranza fisiologica.

Un buon fisioterapista non solo conosce gli strumenti per aiutare il paziente, ma sa anche come stimolarlo dal punto di vista umano e dargli fiducia nei propri mezzi rompendo l’idea che il movimento porti dolore: o ancora meglio che il dolore provocato dall’esercizio fisico, sia un indicatore di danni ai tessuti. 

 

 

 

Per saperne di più leggi l’articolo completo  :

https://www.fisioterapiaitalia.com/blog/il-dosaggio-dellallenamento-e-il-dolore-cronico/ 

 

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Movimento ed Allenamento

Movimento ed Allenamento

Il movimento è vita!

Questa affermazione può sembrare una generalizzazione ma non è così.

Tutto il nostro corpo  è stato progettato per muoversi e la forma del nostro corpo è plasmata dai movimenti che facciamo seguendo la regola che: “la forma è il risultato della funzione”

La forma è il risultato della funzione

Spieghiamo questo concetto partendo dall’inizio.

Quando il nascituro si trova nel grembo materno la posizione che assume è quella fetale. La colonna vertebrale presenta una unica curvatura con la parte concava rivolta in avanti (cifosi) come fosse una lettera “C”. Dopo la nascita il neonato non controlla in un primo momento la posizione del capo e, quando questo avviene, si forma a livello della colonna cervicale una nuova curva avente la concavità opposta (lordosi) a quella già presente.

Successivamente il bimbo acquisirà la posizione eretta per camminare e questo determinerà la formazione di una nuova curva a livello lombare (lordosi) che è il risultato della tensione di alcuni muscoli che uniscono l’anca alla colonna vertebrale.

La nostra colonna vertebrale presenta pertanto tre curvature: La cifosi dorsale, che è la prima a strutturarsi, la lordosi cervicale e quella lombare che sono frutto della funzione che la colonna deve assolvere.

Com’è organizzato il movimento umano?

Esistono delle aree della corteccia cerebrale (la parte più esterna del cervello dal caratteristico colore grigio) che sono responsabili del movimento.

Inizialmente pensavamo che in queste aree cerebrali ci fosse scritto il singolo muscolo ma ciò che abbiamo capito successivamente che nelle aree cerebrali ci sono scritte le funzioni.

Come esempio possiamo osservare due movimenti simili che producono l’allungamento del braccio ovvero l’afferrare un oggetto o indicare una direzione.

Questi movimenti sono prodotti da attivazioni del cervello differenti.Questo perché nel nostro cervello ci sono scritte le funzioni piuttosto che i singoli movimenti e ciò ha un impatto significativo sulla scelta del corretto esercizio per la cura di una specifica problematica.

Il ruolo del fisioterapista

Il fisioterapista, infatti, nella scelta dell’esercizio terapeutico più idoneo da somministrare ad un paziente deve tenere conto di questo principio fornendo una serie di esercizi che possano riallenare le diverse funzioni del paziente. 

La specificità dell’esercizio è un elemento estremamente importante sia per chi vuole allenarsi in maniera adeguata e, lo è ancor di più, quando si parla di recuperare una funzione momentaneamente persa.

Questi concetti volgono ovviamente per tutto il movimento umano. Il fisioterapista, da questo punto di vista deve:

  • In prima analisi comprendere quale sia la funzione che è più importante recuperare e deve dare degli esercizi di movimento o allenamento terapeutici specifici per quella funzione piuttosto che limitarsi a rinforzare dei muscoli.

Per questa ragione, seguire un programma di esercizi di movimento o allenamento senza che ci sia stata una valutazione funzionale da parte del fisioterapista può essere inutile in quanto non è detto che si lavori sulla funzione ridotta dal processo patologico.

Importante è considerare anche le possibili integrazioni che il movimento e l’allenamento oggi stanno avendo con varie tecnologie come alcuni sistemi per la tecarterapia che stanno implementando interfacce dinamiche per l’utilizzo in allenamento.

L’era del mero rinforzo muscolare è terminata ed ha lasciato il posto all’esercizio funzionale.

Un esercizio che rende il recupero più specifico e quindi, che determina risultati più veloci.

 

 

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https://www.fisioterapiaitalia.com/terapie/movimento-e-allenamento/ 

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Esercizio Fisico e Fibromialgia

Esercizio Fisico e Fibromialgia

L’esercizio fisico a bassa intensità migliora la catastrofizzazione del dolore e altri aspetti psicologici e fisici in donne con fibromialgia

 

LO SCENARIO

La fibromialgia (FM) è una condizione cronica caratterizzata da un dolore diffuso associato ad altri sintomi fisici, come la fatica o la diminuzione della capacità fisica, e alterazioni psicologiche. Una di queste ultime è la catastrofizzazione del dolore, un costrutto psicosociale specifico del dolore, che include l’elaborazione cognitiva ed emotiva, il senso di impotenza, il pessimismo e la ruminazione sui sintomi legati al dolore.

La catastrofizzazione del dolore è stata associata alla gravità del dolore e alla disabilità, e viene considerata un fattore di rischio per la cronicizzazione del dolore. Inoltre, ha dimostrato di diminuire l’accettazione del dolore che, a sua volta, può aggravare la sintomatologia. L’accettazione è più bassa nei pazienti con FM, il che è stato collegato a un più alto grado di disabilità e a una minore qualità della vita.

Altre alterazioni psicologiche che possono aggravare la sintomatologia della fibromialgia sono l’ansia e la depressione. Queste, insieme ad alti livelli di stress, sono state indicate come fattori precipitanti e/o perpetuanti di questa condizione e sono inversamente correlati alla qualità della vita di questi pazienti. A questo proposito, è stato suggerito che più alto è il livello di catastrofizzazione del dolore, ansia e depressione negli individui con FM, maggiore è la loro sensibilità agli stimoli non dolorosi e la difficoltà ad affrontare il processo doloroso.

 

L’IMPATTO CHE HA SULLA VITA DI TUTTI I GIORNI

È interessante notare che la catastrofizzazione del dolore è stata anche inversamente correlata alla resistenza muscolare. Questa tendenza ha dimostrato di avere un impatto negativo sui sistemi neuromuscolare, cardiovascolare, immunitario e neuroendocrino. A sua volta causa un’alterazione della capacità funzionale, che può essere valutata sia oggettivamente che soggettivamente. Un declino oggettivo del condizionamento fisico ha un effetto dannoso sulla capacità di svolgere le attività della vita quotidiana, ma anche l’alterazione della percezione della capacità funzionale autopercepita può portare a un’effettiva inattività fisica e a un progressivo decondizionamento.

Il decondizionamento fisico può avere un impatto negativo sulla qualità della vita dell’individuo e sul suo rendimento professionale, che porta all’assenteismo.

 

COME INTERVENIRE

L’attuale gestione della fibromialgia è solitamente basata sul trattamento farmacologico che, nonostante sia altrettanto efficace di una terapia non farmacologica, ha maggiori effetti collaterali e una minore accettazione da parte dei pazienti. Uno dei più promettenti e convenienti approcci non farmacologici è l’esercizio fisico (PE). Così, sono stati proposti un certo numero di protocolli che prevedevano la resistenza aerobica, la flessibilità, protocolli combinati ed altre modalità, che hanno ottenuto miglioramenti principalmente nella qualità della vita, nel dolore, nella forma fisica, e depressione con carichi di lavoro progressivi adattati alle condizioni dell’individuo per promuovere l’aderenza.

 

LO STUDIO

In uno studio controllato randomizzato si è voluto analizzare l’effetto di un programma di esercizio fisico a bassa intensità, che combina l’allenamento di endurance e coordinazione, sugli aspetti psicologici (come catastrofizzazione del dolore, ansia, depressione e stress), la percezione del dolore (cioè, accettazione del dolore, soglia del dolore da pressione (PPT), e la qualità della vita e il condizionamento fisico (cioè, capacità funzionale autopercepita, resistenza e capacità funzionale, potenza e velocità) in donne con fibromialgia.

Trentadue donne con FM sono state assegnate in modo casuale a un gruppo che svolgeva esercizio fisico (PEG, n = 16), che svolgeva un programma a bassa intensità di otto settimane e un gruppo di controllo (CG, n = 16). Sono stati valutati prima e dopo l’intervento: la catastrofizzazione del dolore, l’ansia, la depressione, lo stress, l’accettazione del dolore, la soglia del dolore da pressione, la qualità della vita, la capacità funzionale autopercepita, la resistenza e la capacità funzionale, la potenza e la velocità. Si è osservato un miglioramento significativo in tutte le variabili studiate nella PEG dopo l’intervento (p < 0,05). Al contrario, la CG non ha mostrato miglioramenti in nessuna variabile, che ha inoltre mostrato valori più miseri per la PPT (p < 0,05).

In conclusione, un programma combinato di esercizio fisico a bassa intensità, che include allenamento di endurance e coordinazione, migliora le variabili psicologiche, la percezione del dolore, la qualità della vita e il condizionamento fisico nelle donne con FM.

 

Dott.ssa Francesca Vespasiano – Chinesiologa

[Low-Intensity Physical Exercise Improves Pain Catastrophizing and Other Psychological and Physical Aspects in Women with Fibromyalgia: A Randomized Controlled Trial – Ruth Izquierdo-Alventosa et al. Int J Environ Res Public Health – 21 Maggio 2020]

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Dolore : “Istruzioni per l’uso” Pt. 2

Dolore : “Istruzioni per l’uso” Pt. 2

Nella prima parte dell’articolo abbiamo visto il significato, probabilmente nuovo per molti del DOLORE, cioè come sistema e meccanismo di protezione dei nostri tessuti, ed il dolore come una esperienza sensoriale ed emotiva che possiamo fare in talune circostanze; infine abbiamo accennato al fatto che non tutti i “dolori” sono uguali.

 

Consideriamo, ora, i meccanismi neuro-fisiologici che concorrono alla “esperienza finale del dolore”: la nocicezione, la percezione e la “scatola nera del Dolore”.  E dobbiamo fare una distinzione fondamentale tra il “dolore acuto” ed il “dolore persistente(a me non piace parlare di “dolore cronico” e, peggio ancora di “malato cronico”, perché così il paziente si sente “spacciato” e destinato ad una vita di sofferenza…).

La nocicezione è “Il processo, essenziale alla sopravvivenza, di codifica neurale (ricezione, trasmissione ed elaborazione centrale) di uno stimolo nocivo (Tracey 2013)”.

Può essere definita coma la modalità sensoriale costituita da recettori e vie nervose che rilevano stimoli ad alta soglia con caratteristiche termiche, chimiche e meccaniche.

La nocicezione è altresì una modalità sensoriale specifica per informazioni ad alta intensità che utilizza segnali neurali ad alta frequenza per trasmettere informazioni sull’intensità di un dato stimolo e non sul dolore…e questo è molto importante sottolinearlo! Quindi dopo una data soglia di impulsi, di stimoli ritenuti dannosi o potenzialmente dannosi (SIGNIFICATO), il dolore è la risposta che si attiva nella sua complessità!

E’ inoltre il processo neuro-fisiologico che dalla periferia (tessuti) al centro (midollo e cervello), recapita informazioni circa la salute, il danno e/o la lesione riscontrata, e dal centro in periferia riportando altre informazioni per la gestione dello stato patologico riscontrato.

In questo contesto, quindi, il Dolore è un meccanismo utile e positivo che garantisce la gestione ed il processo della guarigione! Il dolore nocicettivo è il “dolore fisiologico”, localizzato nell’area del danno o della disfunzione. Il paziente descriverà questo dolore con tutta una serie di “sensazioni e sintomi conosciuti”; riferirà vari fattori aggravanti o allevianti di natura meccanica; il dolore generalmente è intermittente e acutizzato con il movimento; nella fase acuta ci saranno fastidi pulsanti e costanti anche a riposo, è la nocicezione associata all’infiammazione.

Allora anche il processo infiammatorio è necessario alla guarigione, quindi, probabilmente, è sbagliato accanirsi con farmaci antiinfiammatori!

La percezione è il complesso sistema neuro-fisiologico attraverso il quale il nostro cervello comunica con il mondo esterno attraverso i recettori, i quali convogliano una quantità enorme di informazioni ogni secondo. Da questa mole è il cervello che “decide” cosa è importante e cos’altro no, per motivi di risparmio energetico ed altro. Dalle info ritenute importanti si costruisce la sua realtà e la sua visione del mondo.

Questo processo vale anche per gli stimoli nocicettivi e/o neuropatici: lo stimolo allarmante (importante) diventa percettivo, avrà un significato e ne partirà, magari, tutta la risposta dolorifica… (i nocicettori si possano attivare senza l’esperienza del dolore: sono tutti d’accordo che applicando 50 kg su 1 cm quadro di pelle si evocherebbe dolore severo, ma una ballerina classica con scarpe a punta lo fa continuamente per diverse ore, riportando esperienze emozionali positive, mentre i suoi nocicettori delle dita sono sicuramente attivi; quindi, almeno i ballerini esperti riescono a dissociare l’esperienza del dolore dalla nocicezione!)

 

Diverso è il quadro neuro-fisiologico in caso di Dolore persistente/cronico: il danno/lesione sono guariti ed il paziente continua a provare dolore! Siamo di fronte ad uno scenario complesso, in cui la cosiddetta “matrice del dolore”, le “vie neuronali ascendenti e discendenti” diventano ipersensibili ed ipereccitabili e maladattivi. Altri fattori, come dicevamo sopra (aspetti bio-psico-sociali, stato emotivo, convinzioni, ricordi, aspettative e significati), entrano e restano in gioco, mantenendo uno “stato di allarme acceso ed attivo”.

Al mantenimento del dolore cronico concorrono vari aspetti:

  • Influenze cognitive ed affettive (pensieri e convinzioni de-potenzianti);
  • Influenze socioeconomiche;
  • Influenze genetiche ed epigenetiche;
  • Influenze ambientali… (troppa protezione e “vita da perenne ammalato”);
  • Utilizzo spesso esagerato ed improprio di farmaci.

Le caratteristiche del dolore cronico centrale generalmente sono: pattern di provocazione sproporzionato, generalmente non meccanico; dolore sproporzionato alla natura ed all’estensione del danno originale.

La distribuzione del dolore è molto diffusa senza necessariamente rispettare rapporti anatomici o di innervazione; forte associazione con fattori psicosociali maladattivi. Quando la protezione diventa troppa protezione, il movimento viene inibito e la modulazione del dolore si riduce: uno stimolo che in precedenza veniva interpretato dal sistema nervoso come non significativo ora viene percepito come dolorifico. Il cervello gioca un ruolo fondamentale nell’interpretazione del dolore!

 

Quindi dobbiamo trattare differentemente un paziente con dolore acuto rispetto ad un paziente con dolore persistente!

Dobbiamo essere in grado di riconoscere e gestire diversamente il dolore nocicettivo da quello neuropatico! E dobbiamo assolutamente trattare con tempi ed obiettivi diversi il paziente dal dolore nociplastico centrale, nella sua complessità e sofferenza!

Dobbiamo essere in grado di spiegare il dolore ed i suoi meccanismi in maniera differente! Ma spesso ci si limita a curare il Dolore esclusivamente come sintomo, lasciando il paziente in uno stato di malattia.

Dott Lorenzo Rossi – Fisioterapista spec in Terapia Manuale

NON E' SOLO QUELLO CHE FAI, MA CIO' CHE PENSI DI FARE CHE FA LA DIFFERENZA.

NOI TI AIUTIAMO A FARLA!